Il Ponte Morandi e i disturbi da stress
LORENZO L. BORGIA
NOTE E NOTIZIE - Anno XV – 29
settembre 2018.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il
cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Ero rigido e freddo, ero un ponte, stavo sopra un abisso.
Di qua avevo le punte dei piedi, di là avevo confitto le mani,
e mi tenevo rabbiosamente aggrappato all’argilla friabile.
[Franz Kafka, Il Ponte, 1917]
Il crollo
del Ponte Morandi a Genova, il 14 agosto, ha causato la morte di 43 persone,
distrutto la vita di tante altre legate alle vittime e generato uno stato di
allarme in tutti coloro che, sensibili e vulnerabili allo stress, siano o si sentano in qualche modo vicini a chi è stato
colpito o temano di essere esposti al rischio di andare incontro ad una sorte
simile.
A distanza
di più di un mese è emersa la possibile prova di un depistaggio costituito da
una e-mail scritta la notte del disastro da Chiara Munari, account manager di Cesi[1], rispondendo ad una richiesta di Autostrade; in altri termini, una misera
vicenda di manipolazione di documenti per cercare di sfuggire alle proprie
responsabilità, sulla quale sta indagando la magistratura. I giornali sono
ormai pieni di questioni politiche, amministrative e penali connesse con la
sciagura, ma dei danni psichici ancora attuali e dei rischi per l’incolumità
fisica e la salute psichica non parla più nessuno. I primi esami peritali[2] hanno stabilito che tutto il viadotto di Genova
noto come Ponte Morandi è a rischio, in quanto è stato rilevato un deterioramento
maggiore di quello della parte collassata in segmenti lontani dal tratto in cui
è avvenuto il crollo; pertanto, si è deciso di abbattere l’intera struttura. Ma,
come? Facendo ricorso ad esplosivi? Un’ipotesi che certo non può far dormire
sonni tranquilli a chi già soffre di una sintomatologia da trauma psichico dalla
sera della sciagura.
È giunta
un mese fa un’autorevole esortazione, affinché il tempo della vicinanza con “le
famiglie delle vittime, con gli sfollati che hanno perso la casa e gli affetti,
con l’intera città di Genova” sia “una vicinanza fattiva, operosa, intima,
silenziosa e non rabbiosa, senza fomentare odi ideologici, senza atti di
sciacallaggio politico e desideri di vendette”[3]. Non è facile per un privato cittadino che non
vive a Genova contribuire efficacemente al supporto delle persone in difficoltà;
al contrario, per gli amministratori pubblici e per tutti coloro che sono
preposti alla gestione di interventi sociali non sarebbe difficile rendersi
immediatamente utili con provvedimenti efficaci, concepiti realmente
nell’interesse di chi soffre. L’esortazione attraversa come una lama tagliente
la rappresentazione mediatica della solidarietà, solitamente ostentata in un
farisaico rituale di dichiarazioni, per giungere al cuore del problema
costituito dal vero interesse dei protagonisti, ossia un tornaconto personale o
di fazione politica, che usa strumentalmente le argomentazioni relative alle
responsabilità e agli aiuti, senza alcuna reale preoccupazione per le vittime e
i superstiti del disastro.
Per quanto
ci riguarda, noi riteniamo che in un paese civile, i responsabili della salute
pubblica debbano sentire il dovere di mettere a disposizione delle persone
esposte all’evento traumatico, o alle sue conseguenze, un team di psichiatri esperto in disturbi da stress, in generale, e in PTSD (post-traumatic stress disorder)[4], in particolare, per la diagnosi precoce, la
cura, il sostegno e, inoltre, per fornire una corretta informazione scientifica
e medica su sintomi e sindromi, e su quanto è possibile porre in essere per
affrontarli nella vita di tutti i giorni e per prevenire lo sviluppo delle
forme più gravi.
Mentre in
passato, sul modello dell’Harvard Program
in Refugee Trauma[5], che costituì anche il progetto pilota per lo
studio del PTSD in tutto il mondo, l’assistenza psichiatrica pubblica era limitata
ai rifugiati dai teatri di guerra e ai sopravvissuti alla violenza di massa e
alla tortura, dopo l’attacco al Pentagono e la distruzione delle Twin Towers dell’11 settembre 2001, i
dipartimenti di salute mentale di molti stati nazionali del mondo occidentale hanno
previsto interventi psichiatrici a supporto della popolazione civile per ogni
genere di disastro, emergenza bellica o calamità naturale, dagli attacchi
terroristici ai terremoti, dai disastri aerei o ferroviari agli tsunami, dalle
alluvioni agli uragani. È generalmente un intervento super-specialistico, in
quanto spesso affidato a team che si
dedicano alla ricerca e alla clinica dei disturbi traumatici e da stress intenso, acuto o protratto; ma,
allo stesso tempo, può essere una straordinaria occasione di vicinanza umana,
attraverso il conforto, la rassicurazione, il supporto e la condivisione della
sofferenza.
A questo
proposito Richard Mollica, il cui lavoro aveva preso le mosse nel 1988 da Site 2, il più grande campo di rifugiati
cambogiani allestito dall’ONU, ed è poi proseguito sui Butanesi che vivono in
Nepal, sui Bosniaci che vivono in Croazia (1999), in gruppi di civili di
Ruanda, Timor Est ed Afghanistan, fino agli Americani sopravvissuti dell’11
settembre 2001, riferisce la grande esperienza vissuta nella dimensione della
sofferenza umana, che gli ha suggerito l’importanza della comprensione e
condivisione dei sentimenti sviluppati nel turbamento di uno stato d’animo
dolente e non di rado tendente alla disperazione. Mollica, che ha coniato
l’espressione invisible wounds per
indicare quegli esiti di ferite psicologiche che condizionano tutta la vita
delle persone esposte ad esperienze di stress
o perdita traumatica, in occasione del congresso mondiale “One Billion” tenne una conferenza presso la Caritas di Roma,
durante la quale, oltre a spiegare quanto avesse imparato in termini personali
e professionali dall’esperienza del dolore morale altrui, illustrò la valenza
umana e caritatevole di un appropriato ed efficace intervento psichiatrico[6].
Naturalmente,
comprendere il vissuto di perdita, caratterizzato dai processi psichici
reattivi del lutto, che si tende a distinguere da quelli depressivi, ha
un’importanza notevole, soprattutto nell’approccio ai parenti delle vittime e a
tutti coloro che hanno patito perdite simboliche gravi, derivanti da quelle
materiali. Tuttavia, non è corretto quanto è stato detto e scritto da tanti
psicologi in questi giorni, ossia che “lutto” sia la parola chiave per
comprendere la sofferenza psicologica delle persone colpite dal crollo del
viadotto di Genova. Nel bagaglio culturale di ogni psichiatra una profonda
conoscenza delle dinamiche psichiche legate all’esperienza della perdita è
necessaria per la comprensione di una parte considerevole della psicologia,
della psicopatologia e della vita dei propri pazienti, oltre che della propria.
La morte di persone care è un evento che appartiene alla vita di tutti, e che
può più volte verificarsi nel corso degli anni, turbando l’equilibrio
psicoadattativo in modo più o meno rilevante, a seconda del peso affettivo dei
defunti e di tutte le variabili legate alla psicologia del soggetto; e, proprio
per questa caratteristica universale, viene ad associarsi praticamente a tutto
lo spettro della patologia psichiatrica nota. La differenza, nel caso di un
disastro, di un attentato terroristico, di un atto di guerra su civili o di una
calamità naturale, consiste nella natura
traumatica dell’evento luttuoso per una causa
generalmente imprevista in una circostanza
che accomuna molte persone. Se a tali elementi di connotazione si aggiunge
il criterio delle responsabilità dell’accaduto, ben si comprende, nel caso del
Ponte Morandi, la nostra convinzione di un doveroso intervento pubblico a
favore dei cittadini colpiti.
Uno spunto
etimologico, tratto dal saggio Il
disturbo post-traumatico da stress (PTSD) del nostro presidente, fornisce
una sorprendente traccia di un’antichissima radice culturale del sapere medico
a partire dal termine pathos: “È
interessante notare che il valore semantico della parola
παθος, che si afferma e si tramanda nella tradizione
greca, si costituisce proprio per designare l’effetto sul soggetto di un evento
traumatico. Nella sua forma originaria la parola denota l’essere colpito dall’esterno, indipendentemente da una connotazione
positiva o negativa. Παθος significava appunto evento, avvenimento, congiuntura.
Impiegata per indicare eventi gravi ed imprevisti come morti improvvise o
cataclismi, la parola assume la valenza negativa di disgrazia, sciagura, sofferenza per un avvenimento
accidentale. La sciagura, ovvero ciò che non si sceglie e colpisce, è alla
radice di uno dei prototipi concettuali del dolore: un male che giunge, come si
rinviene nel verbo πάσχω (da cui il patior latino) che significa insieme accadere, subire e soffrire. «In
una parola l’accadimento del dolore è ciò che costitutivamente si subisce ed in
tale subire esso è appunto un patire»”[7]. Da notare – come si legge nello stesso saggio –
che la medicina ippocratica abbondava di vocaboli per indicare le malattie,
mentre uno dei pochi termini impiegati per definire l’ammalato e non la
malattia è bletos,
che vuol dire colpito, percosso improvvisamente, e, per
estensione, preso da un colpo[8]: questo termine, qui translitterato secondo
l’alfabeto latino, origina dalla stessa radice di
παθος. In altri termini, uno degli elementi semantico-concettuali
all’origine del paradigma medico del IV secolo a. C. è l’esperienza di un evento traumatico.
I
responsabili della salute pubblica a Genova molto probabilmente non hanno
familiarità con queste nozioni. Quando mancano cultura e conoscenza, può venire
in soccorso la sensibilità che, favorendo l’immedesimazione e l’empatia, in
questo caso avrebbe potuto innescare le azioni necessarie per reclutare i
professionisti in grado di aiutare le persone colpite.
Nel
brevissimo racconto di Kafka citato in esergo, il ponte, in quanto tale, “era
rigido e freddo” e “doveva aspettare”, perché: “Un ponte, una volta costruito,
non può cessare di essere ponte senza precipitare”[9]. Eppure, quel ponte, una sera, sentendo qualcuno
arrivare, e percependo su di sé un balzo a piedi uniti, non sapendo se fosse un
suicida o cos’altro, si immedesima, “rabbrividisce per un dolore lancinante”[10], e si gira per vedere la persona… e così
precipita.
Fosse vivo
Kafka, con ogni probabilità, umanizzerebbe per artificio letterario anche il ponte
di Genova, ma mi riesce difficile immaginare che, pur con tutte le risorse
della sua arte, riuscirebbe a rendere più umani i responsabili e i tanti
protagonisti in negativo di questa tragedia.
L’autore della
nota ringrazia
la professoressa Monica Lanfredini per il contributo
fornito e la rilettura del testo.
Lorenzo L.
Borgia
BM&L-29 settembre
2018
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La Società Nazionale di Neuroscienze
BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è
registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in
data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione
scientifica e culturale non-profit.
[1] L’azienda di consulenze che nel
2016 aveva evidenziato “anomalie nel comportamento degli stralli” e suggerito
di “procedere con un monitoraggio dinamico permanente”. (Cfr. Fiorenza Sarzanini, Corriere
della Sera, 18 settembre 2018 e fonti ANSA).
[2] Nel corso dell’incidente
probatorio sono stati definiti alcuni tempi: periti e consulenti tecnici di
parte potranno effettuare il primo sopralluogo il 2 di ottobre; 60 giorni dopo
(2 dicembre) potranno essere discusse le conclusioni dei tecnici, ma l’udienza
per la discussione è fissata per il 17-18 dicembre, poco prima delle vacanze natalizie
(cfr. Il Secolo XIX del 25 settembre
2018).
[3] Gualtiero Bassetti, presidente
della CEI e arcivescovo di Perugia-Città della Pieve (Cfr. ANSA, cit. tratta
dal Settimanale dell’Osservatore Romano del 23 agosto 2018).
[4] Integrando i dati di numerosi
studi, la prevalenza nella popolazione generale si stima superiore all’1%,
ossia maggiore del cancro e della schizofrenia.
[5] Uno dei primi programmi per
l’assistenza e lo studio dei sopravvissuti alla violenza di massa e alla
tortura, è stato poi considerato il progetto pilota in tutto il mondo per la
ricerca clinica sul disturbo
post-traumatico da stress (PTSD). Richard Mollica, professore di
psichiatria della Harvard Medical School, è stato tra i fondatori di questo
programma.
[6] La conferenza fu tenuta a Roma
il 3 dicembre del 2004.
[7] G. Perrella, Il disturbo post-traumatico da stress (PTSD),
pp. 54-55, Dipartimento di Neuroscienze, Università Federico II, Napoli 2005.
La citazione conclusiva è tratta da S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale,
p.19, Feltrinelli, Milano 1986.
[8] V. Di Benedetto, Il medico e la malattia. La scienza di
Ippocrate, pp. 19 e 23, Einaudi, Torino 1986. Alla pag. 23, in particolare,
si riporta una descrizione tratta da Mal.
II 25 del Corpus Hippocraticum.
[9] Franz Kafka, Il Ponte (1917), p. 381, in “Racconti”, I Meridiani, Mondadori,
Milano 1970.
[10] [10] Franz Kafka, op. cit., ibidem.